In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. Si celebrava il funerale di Donna Mimina. Un funerale sentito, meridionale, a cui partecipava tutto il paese.
Nonostante si fosse abbandonata da un bel po’ la pratica delle chiangimorti (le prefiche) le comari del paese si sentivano in dovere di versare lacrime copiose e rumorose. In fin dei conti era morta la Farmacista, che con il prete, il medico ed il sindaco, rappresentava l’eccellenza a cui riverire. Nei due giorni precedenti, la morta era stata esposta dentro casa, secondo sue indicazioni. Era stato allestito il letto con il corredo migliore e Donna Mimina deposta su di esso con la camicia da notte più bella. Doveva sembrare come se dormisse e si potesse svegliare da un momento all’altro. Infatti la Farmacista aveva dato disposizioni non la si toccasse per due giorni e due notti. Temeva o auspicava in una sua finta dipartita.
I paesani sfilarono di fronte a Donna Mimina incessantemente.
-Matonna quantu sta bella!
-Veti veti sta proprio serena.
-Quiddu sorriso che tiene. Si vete proprio che si è liberata dallu dolore!
-Nà nà ma che colorito, bella fatta proprio sta, Recchiem eterna.
Il tutto in una profusione di segni della croce, carezze e baci sfiorati alla morta, come da migliore tradizione meridionale.
In un angolo appartato sedeva Titino, il figlio di Donna Mimina. Le donne lo guardavano con compassione.
“Cummà” fece una donna all’altra, “ti ricordi a quannu nacque Titino? Era scuru e gnoro come nu topolino”.
“Ca secondo te mi possu scurdari?” rispose l’altra impettita. “La buonanima di Donna Mimina a quannu lu vite alzò le braccia e disse: Oh Matonna dei Cieli, quanto è brutto, copritelo con lu lanzulo che pare nu zucculone”.
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