Un sogno di storia

Ripubblico un post di Walter Carrettoni, una storia che fa volare alte le emozioni.

“Voglio mettere subito le cose in chiaro.
Sono morto. E da un bel pezzo anche.
Ne parlo così, con leggerezza, appunto perché la cosa non mi pesa…”

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Pinuccio

Per un poppante non c’è nulla di più bello di un capezzolo roseo e spumoso di latte. Pinuccio ne sapeva qualcosa. Primo figlio di Teresa, per sei lunghi mesi si attaccò a quelle succulenti tette venate di azzurro.

La manna gli venne proibita quando Teresa rimase incinta per la seconda volta. Pinuccio si disperava e strillava così forte che la tetta veniva rimessa a sua disposizione per quietarlo. A nulla valsero i tentativi di intingere il capezzolo nel succo di limone o aceto. Pinuccio ciucciava tutto ma la gravidanza proseguiva e bisognava svezzarlo.

Un mattino di grande appetito, la boccuccia aperta e le manine bramose, Pinuccio in grembo alla mamma aspettava la sua poppata. Teresa slacciò il reggiseno e mise di fronte al figlioletto il capezzolo nero, tinto col carbone.

Sono passati 73 anni e Pinuccio ancora non riesce a bere il latte.

Mandorle e melagrane 

Quando arriva questa stagione, penso alla nonna che sbucciava le melagrane, raccogliendo i semi rossi in un boccaccio solo per me. Stessa cosa faceva con le mandorle. “Cazzate” ad una ad una pazientemente, con una pietra nell’orto di casa e private della pelle. E poi la puccia, una focaccia sfornata fresca per la merenda del pomeriggio, che nel suo vecchio tegame poroso per l’usura, aveva il sapore di cose antiche. Era l’unica che di nascosto mi faceva bere il caffè, veleno a me proibito in quanto troppo eccitante per una bambina già di suo molto eccitabile. Infatti quando sono andata via di casa a 16 anni, lontano dal controllo dei miei, ho fatto overdose di caffè, non alcolici. La caffeina mi fece palpitare il cuore all’impazzata per oltre 12 ore.

Nonno la adorava, con il pudore e la ritrosia delle persone di una volta e pendeva dalle sue labbra. In vecchiaia passava spesso i pomeriggi a letto e quando li andavo a trovare, mi stendevo affianco a lui. Una volta gli dissi: “Nonno, vuoi venire di la con noi in salotto?”. E lui: “Va a dimanni alla nonna, m’agghia anzà o m’agghia sta curcatu?” ( Va’ a domandare alla nonna, mi devo alzare o devo rimanere coricato?)

Emanuele

Emanuele era un superstite della prima guerra mondiale ed il mio bisnonno. Durante la battaglia sul Monte Grappa, fu colpito da una granata lanciata dall’esercito austro-ungarico. Perse così un pezzo di osso cranico. Sagacemente diceva che questo aveva dato più respiro alle sue idee. Ferito e rimasto solo, discese tutta la montagna premuto sul fondoschiena e fu ricoverato per tanti mesi. A guerra finita, gli venne assegnata una casa nel palazzo dei Mutilati della sua città. Generò dieci figli con nonna Agnese, stipati tutti allegramente sotto lo stesso tetto. Ogni angolo della casa di notte si trasformava in un posto letto per accomodare ognuno. Negli anni si aggiunsero anche i nipotini, il cui babbo era emigrato in America in cerca di fortuna. I racconti di questa vita familiare stregavano la mia attenzione di bambina. I pasti scanditi da menù diversi ma fissi per ogni giorno della settimana. La prima porzione sempre servita al capo famiglia, ma il pezzo migliore ai più piccoli. I chili di paranza comprati a buon mercato dal pescatore per sfamare tutti, che davano tanto daffare in cucina alle donne della famiglia. Quando a volte nonna storceva il naso all’ennesima frittura da preparare, Emanuele incline alla collera se contraddetto, apriva impetuoso la finestra della cucina e lanciava giù tutto l’involucro del pesce. Lì sotto si radunavano i gatti del cortile, abituati alla scena che si ripeteva a settimane alterne! L’appuntamento serale con i vicini, riuniti attorno all’unica radio del condominio per l’ascolto dei romanzi narrati. L’involucro giallo e rasposo per alimenti riciclato come carta da bagno.

Il cruccio più grande di nonno era quello di non avere la pancia grossa, sinonimo di abbondanza e benessere a quei tempi.

Pare che durante un diverbio con un vicino, questi gli urlasse dietro nella tromba delle scale:

-Lei è uno sciattone!

Nonno rispose:

-Ma grazie, ma grazie!

Non si è mai saputo se non conoscesse il significato della parola o avesse invece dismesso l’insulto con del sarcasmo. Io credo un po’ tutte e due le cose, perché agli orrori della guerra, e degli uomini, nonno aveva imparato a sopravvivere con un pizzico di pungente e consapevole ignoranza.

L’amor franco

Zia Giuseppina prima di sposarsi ed avere sette figli, era stata fidanzata con un ragazzo del paese. Questo Franco non tornò mai più dal fronte di guerra. Anche lui un disperso del 15-18. Nel loro italiano semplice, imparato sui banchi di terza elementare, si erano scritti le lettere più dolci, scambiati le parole più tenere. Tanti anni dopo, una nipote chiese a zia Giuseppina, ormai ottantenne, dell’amore. La zia disse:” Figghia mea, m’aggiu sposato, aggiu fattu sette figghi, aggiu diventato nonna ma io, a Franchino mio nun me lu scordo e nun me lu scordo!”

Quando poco tempo dopo morì, una figlia di zia Giuseppina trovò le lettere d’amore del 15-18. Gelosamente custodite per sessant’anni in una scatola di latta, sotto al letto. Le lettere finirono sul petto di zia, al cimitero. 

Ci sono nostalgie che non passano mai e che a volte ti aiutano a ridimensionare nostalgie più piccole e più recenti. Perché, per alcuni, c’è una parte del cuore che può battere solo con un po’ di dolore. 

Nostro nipote

Caro Leo, tra qualche settimana verrai alla luce! Ci vogliono ancora due mesi in realtà, ma l’emozione fa accelerare i tempi. Ti stiamo aspettando con ansia da tanto. Avrai una mamma speciale, che sta affrontando sacrifici che avrebbero mandato in tilt molte donne. Dalla sua bocca mai un lamento, solo sorrisi invece. Tuo padre è l’esempio della premura di poche parole, ma, imparerai caro Leo, che sono solo i fatti a parlare. Le tue pazze “zie” siamo Katy ed io. Ti vizieremo e terremo a bada le ansie di mamma.
Ricordati che i genitori per troppo amore hanno spesso il dono della onniscienza. Significa che loro prima di te, penseranno di sapere quali sono le scelte giuste o sbagliate. Quelle di cui sarai orgoglioso e quelle di cui ti pentirai.
Ti dico una cosa nell’orecchio. L’unica esperienza che ti servirà, sarà la tua propria. Solo quella ti darà la saggezza acquisita sul campo. E sai quando avrà da insegnarti di più? Quando avrai sbagliato, quando vorrai tornare indietro e non potrai. E quando imparerai a non farti fregare da questo rimorso o quel rimpianto. Ed andrai comunque avanti. 
Ti aspettiamo!
Baci grandi, la zia.  

Don Ciccio

Don Ciccio abita in un antico palazzo dell’800, in cui le stanze sono una consequenziale all’altra. Si muove leggero tra tappeti ed arredi di pregio. La sua compagna è una elegante signora con i capelli a caschetto. Tanto amorevolmente lei si prende cura di lui, rimboccando le sue coperte e chiamandolo Cicciolo nei momenti più teneri. I tè delle cinque sono supervisionati dai suoi occhi liquidi, soffre di cataratta don Ciccio, ed altri acciacchi, ma non perde mai la sua paziente dignità. Unico maschio che assiste alle partite di poker di 4 arzille signore. Ogni tanto vi partecipo anche io, portando un po’ di giovinezza a questo gruppo, che si definisce delle “giovani marmotte”. Ricordo che mal sentii il nome la prima volta, scambiando marmotte per mignotte. Non credo queste delicate signore abbiano mai riso tanto in vita loro! Oggi pomeriggio ci riuniremo tutte di nuovo, alle cinque. Non ci saranno tè e pasticcini. Aspetteremo invece l’arrivo del veterinario, che porrà fine alle angosce di don Ciccio. Quanto ci mancherai, quelle stanze non saranno più le stesse senza te.

PS. Ho appena ricevuto la notizia che sei andato via da solo, senza l’aiuto di nessuno, discreto fino alla fine. Ciao don Ciccio!

40 in 40 

40 minuti fa, donandoci un anello, ci donavamo le nostre vite. In un attimo il tempo ha voluto scherzare con noi due, trasformando quei 40 minuti in 40 anni. Eravamo belli e pieni di esuberante gioventù, ora lo siamo un po’ meno: è un altro scherzo di quel burlone!! Ma nel mio cuore, dove lui non può arrivare, so solo io che “yours are the sweetest eyes I’ve ever seen…” Ti amo sempre, da sempre e per sempre, alla faccia del tempo.
Io.

Per la mia Natasha

Mamma mia, che gioia! La piccola Natasha è venuta da me oggi. “Ti ricordi di me?” mi ha chiesto. Come avrei potuto mai dimenticarla. Ha 10 anni, la più piccola creatura che conosca a soffrire di anoressia. Non riusciva ad ingoiare più. Le faceva male al petto, come un senso di oppressione, diceva. Oggi mi è corsa incontro, si è abbassata la salopette di jeans, “Guardami! Toccami la pancia, hai visto come è cresciuta?!”. Tesoro mio bello, potevo ancora contare le tue costole, ma ci ho accarezzato tanta speranza sopra. 

To the moon and back

Papà Lepre portava a letto suo figlio. Aggrappato alle lunghe orecchie del babbo, Leprottolo chiese:

– Indovina quanto ti amo?

Papà Lepre rispose:

– Non credo di poterlo mai immaginare!

Leprottolo allargò le braccia più che poteva:

– Così tanto!

Il papà allargò le sue, ancora più lunghe:

– Ed io tanto così!

Leprottolo pensò che era davvero molto più amore! Allungò quindi le braccia in su:

– Ed io in alto così papà!

Il babbo fece lo stesso…mannaggia, braccia ancora più lunghe.

Il piccolo decise di fare una verticale, appoggiando i piedi sull’albero :

– Ed io ti amo fino alla punta del mio alluce!

Ma i piedi del papà erano ancora più lunghi.

Ormai mezzo addormentato Leprottolo guardò in su, niente poteva essere più lontano del cielo.

– Io ti amo di qui fino alla luna!

Soddisfatto, finalmente, chiuse gli occhi e si addormentò.

Papà Lepre pensò che questo era si molto lontano. Poi dandogli il bacio della buonanotte, sussurrò delicato:

– Io ti amo di qui fino alla luna…e ritorno!

Una favola di Sam McBratney